domenica 17 aprile 2011

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Cosa resta

Che cosa resta di una vita sbagliata, di giorni persi per strada, di dubbi irrisolti, di certezze infondate, dei libri letti e degli altri mai aperti, dei film dimenticati e di tutte le illusioni dei nostri giorni peggiori, della pioggia caduta e dei pomeriggi di sole, di tanti litigi con donne perdute, di quelle mai avute e ancora rimpiante, delle storie stanche trascinate a oltranza, delle ore passate guardando il soffitto nella propria stanza, preoccupandoci dell'affitto, le bollette e tante altre sciocchezze, delle bugie dette agli altri e di quelle raccontate a noi stessi, solo per convincerci di essere diversi, dei nostri sbalzi d'umore, della musica sul cui sottofondo abbiamo fatto l'amore, del tempo interminabile speso a cercare parcheggio e del poco che ci siamo concessi nel trovare il coraggio, della sfiga e dei capricci del tempo, dei propositi dispersi nel vento, dei nostri momenti migliori, di tutte le ferite subite e dei lividi che ci siamo procurati da soli, delle insensate paure, dei ridicoli sogni e di tutti i bisogni inventati, dei sorrisi sinceri e di quelli forzati, di troppe parole e delle poche che miravano al cuore?

Donna che guarda il panorama dall'alto

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domenica 20 febbraio 2011

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Meno di niente

E’ di sopra, a preparare la sua roba. Forse è giusto così. Perché in questi quindici anni non c’è mai stato un passo, un contatto, un tentativo di riavvicinamento vero e proprio. Abbiamo saputo solo odiarci. E se quindi ha deciso di andar via, lo ammetto, è la cosa più sensata che abbia mai pensato di fare in quindici anni. Eppure, è stata la mia vita.

Non ci sarà più il mattino a brontolare dove sono i suoi vestiti. Non ci saranno più le sue domande stupide, i suoi discorsi inutili, i suoi atteggiamenti arroganti, i suoi pareri negativi, i suoi brontolii frequenti. Non ci saranno bugie e ritardi al lavoro.

Non ci saranno regali ad anniversari e compleanni, i suoi ultimi piccoli ed insignificanti gesti con cui a volte tentava di ricordarsi di me, con cui forse chiedeva un perdono che non gli ho mai concesso, perché no, non mi basta un fiore, un vestito od un gioiello per consolarmi delle umiliazioni subite. Non ci saranno lacrime sul cuscino, quando la notte rincasava e sapevo dov’era andato, a trovare lei, una puttana sul lungomare, bella come non lo sono mai stata, desiderabile come può esserlo una donna che si preferisce pagare quasi ogni notte e dividerla con gli altri, piuttosto che recuperare terreno e l’esclusiva della propria moglie.

Ha deciso che sia meglio separarci, per tutti e due, ed io non posso certo dargli torto. Non era questo che volevo, benché sapessi che fosse inevitabile. Avevo più motivi di lui per prendere una decisione del genere, eppure non me la sono mai sentita. Perché è stato l’unico amore della mia vita, perché a me ancora mancano i baci, le carezze, gli abbracci e gli sguardi di desiderio dei primi anni, perché questa decisione annulla la mia vita, mi dice in modo chiaro e definitivo quando siano state inutili le mie lacrime sul cuscino quando la notte lo sentivo rincasare ed avviarsi verso la nostra camera, spogliarsi e dopo aver spento la luce, infilarsi tra le coperte, senza avermi nemmeno dato un’occhiata, senza neanche essersi chiesto se davvero stessi dormendo o no; inutili saranno anche la mia rabbia ed il mio dolore: non c’è nulla di recuperabile nel mio matrimonio.

Ma di cosa mi lamento?

Pensavo di aver sposato un uomo. Mi ritrovo con un idiota, che prima ha perso i capelli e poi la testa per un'altra donna, poi anche il pudore, la discrezione ed il rispetto per sua moglie. L’unica cosa che gli è cresciuta è la trippa. Dovrei augurarmi che si sbrighi. Che esca da quella porta al più presto per non tornare mai più. Che schiatti.

So di valere molto di più di come mi ha trattata. E di certo valgo molto più di lui. Valgo diecimila volte più di lui. Non sono stata io a ferire i sentimenti di una persona che aveva giurato di amare per sempre. Non mi sono cercata un’amante solo perché tra noi le cose cominciavano a non funzionare. Non sono io quella che ha deciso che una puttana con una figlia è meglio di una moglie che non può dartene. L’unico peccato davvero commesso da quella ragazza è l’essere nata, eppure mi basta per odiarla.

Perché se non fosse successo forse avremmo recuperato il nostro rapporto e magari oggi non sarei così infelice. Non importa più di chi sia davvero figlia, l’idea che possa anche essere sua gli è bastata per affezionarsi sia a lei che alla madre. Ed io?

Ti sei preso la mia vita, brutto stronzo. Rendimela.

Rendimi l’autostima, la voglia di vivere e quella di amare, il piacere delle piccole cose, i sorrisi e le lacrime perse. Rendimi tutti i miei sogni prima di sparire per sempre. E’ ancora di sopra, a preparare la sua roba, ma credo che ormai manchi poco. Sto piangendo per un coglione calvo grasso ed ipocrita che mi sta per lasciare, e che forse non mi ha mai avuta davvero. Lo so che non dovrei, che non ne vale la pena, che, tra i due, sono io a guadagnarci, perché sì, valgo molto più di quanto quel deficiente pensi.

Ma so anche che il momento in cui uscirà da quel portone, da questa casa e dalla mia vita, mi farà sentire meno di niente.

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domenica 6 febbraio 2011

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Guardandosi negli occhi

La cercò per due anni, chiedendo agli amici,ai parenti, a chiunque la conoscesse. Dalla polizia non andò, che un po' si vergognava, che tanto lo sapeva, che non era successo nulla di grave. Lo aveva lasciato, era solo questo. Solo che non riusciva ad accettarlo. Non capiva. Non si era comportato in modo diverso dal solito. Era andata a prenderla, era stato affettuoso come al solito, le aveva detto di aver fame e si erano fermati al bar per un pasto al volo. È vero, nell'occasione aveva litigato col marocchino che tentò di rifilargli la sua chincaglieria, ma uno scatto d'ira può capitare a chiunque, e poi non era mica rivolto a lei. Non poteva essere stato quello. Che avesse avuto un altro uomo? E dove l'aveva conosciuto? All'ospedale probabilmente, visto che usciva pochissimo di casa e il più delle volto solo insieme a lui. Quella maledetta operazione di appendicite avrebbe dovuto tenerla lontano da lui solo una settimana, invece gliela portò via per sempre e chissà con chi.

Finché non venne a sapere, non ricorda più come, che si esibiva il mercoledì sera in un pub della capitale.
Chissà come ci era finita lì e di cosa vivesse! Decise di partire anche se era piuttosto indeciso su cosa dirsi. Dentro di lui covava il risentimento per essere stato abbandonato, ferito, tradito e offeso, anche se era deciso a perdonarla. Purché tornasse a casa! Le mancava, non sapeva neanche lui perché, in fondo il loro matrimonio non si discostava dalla solita routine, ma la rivoleva al suo posto.

Arrivato in città, chiese un po' di informazioni prima di trovare il pub. Si trovava in periferia, di quelle che hanno fama sia meglio evitare, per non fare brutti incontri.
Trovò il pub.
Era un locale come ce ne sono a migliaia nel mondo, arredato con stile pseudo-irlandese, di quelli dove è difficile respirare, se non dopo le tre di notte, quando finalmente inizia a svuotarsi un po' da quella calca di gente: ragazzi chiassosi, studenti con voglia di divertirsi, coppie a contendersi i tavoli più appartati, uomini soli col bicchiere in mano e gruppetti di donne a fare ironie su di essi.

Ordinò una birra ed aspettò il suo arrivò. Perso nei suoi pensieri, nelle parole che avrebbe voluto dirle, non si accorse che era già sul palco, ed aveva cominciato a cantare. Non l'aveva mai sentita cantare prima, se non timidamente, a voce bassa, quando faceva le pulizie di casa. Qui urlava a squarciagola! Aveva persino imparato a suonare la chitarra. E sembrava felice,molto più felice di quanto l'avesse mai vista.

Dentro la sua coscienza cominciò a prendere piede una voce che diceva che la vedeva molto più felice stretta quella chitarra di quanto lo fosse mai stata tra le sue braccia. Ma per ora, non voleva dargli ascolto. Si avvicinò al palco, per farsi riconoscere. I loro occhi si incrociarono. Fu solo un attimo.

Un attimo in cui, come d'incanto, l'intero locale si zitti. Forse era stato solo un caso, a volte capita che un gruppo non omogeneo di persone intente a farsi i fatti propri, smetta improvvisamente di parlare e far casino. O forse erano stati i suoi occhi. L'attimo in cui aveva cambiato espressione,come di smarrimento, di chi ha paura che qualcosa o qualcuno la faccia rinunciare a sé stessa.

Fu come se in quell'attimo si fosse specchiato negli occhi di lei, per vedersi come lei lo vedeva e come non si era mai reso conto d'essere davvero. Solo un attimo prima, ad una conclusione del genere non sarebbe mai arrivato. Amare, l'aveva amata. Ma l'aveva sempre trattata come un soprammobile. Prezioso, certo, di cui tener cura ma sceglieva lui il posto in cui metterlo e il modo in cui trattarlo, senza possibilità di replica. E anche quando si dovevano prendere decisioni ne parlava prima con lei ma in fondo era come se avesse già deciso. Non faceva altro che preannunciare una sua scelta. Non erano avesse possibilità di repliche e non si era mai chiesto se lei avesse esigenze che lui non contemplasse. Le aveva, a giudicare da quel palco.

Ma in fondo lo aveva sempre saputo. La voce della coscienza aveva preso il sopravvento ed ormai glielo diceva a chiare lettere: l'aveva soffocata nelle sue abitudine perché erano le uniche cose che sapesse darle e nelle quali si muoveva con sicurezza. L'avesse lasciata fare, essere quella che era sempre stata, quella donna lì sul palco piena di energia e voglia di vivere, lui non ne sarebbe stato all'altezza. Gli bruciava ammetterlo ma aveva lasciato che sua moglie conducesse una vita mediocre per non sentirsi mediocre lui. Ovvio se ne fosse andata: cercava quel che lui non sapeva darle e che in realtà neanche aveva chiaro in mente cosa fosse.

E si accorse così in una notte sola di quanta distanza ci sia stata in una vita intera. Cos'altro voleva da lei? Non c'era nulla che potesse dire o fare per cambiare le cose. Pagò il conto, col barista e con la vita. L'avrebbe lasciata in pace. Si diresse verso l'uscita insoddisfatto di sé stesso, insoddisfatto per tutti i rimorsi e i discorsi mai fatti. Si dice che quando muori tutti i momenti più importanti della vita ti scorrano nella mete come un film. Accadde qualcosa di simile nella sua testa, che rievocava in rapida successione tutti i momenti vissuti con lei: erano i titoli di coda della sua storia d'amore.

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giovedì 18 novembre 2010

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Voci


Ho tanti personaggi che mi affollano la mente e che non riesco a dominare. A dire il vero, la maggior parte nemmeno mi è simpatica. La mia testa è intasata da draghi che spaccano tutto, di vampiri crudeli e affamati, di uomini ridicoli e di donne improbabili. Saranno anche il frutto della mia fantasia, ma io non faccio altro che subirli, loro e le loro storie, senza riuscire a impormi, a trattenerli se vorrei che restassero o viceversa. Vanno e vengono, fanno e disfanno a piacer loro, interagiscono, si scannano, ogni tanto mi consultano ma il più delle volte neanche mi danno retta. Semplicemente, i meandri del mio cervello sono diventati il loro parco giochi.

E pensare che io non amo il fantasy, l'horror e nessuno dei generi che, se fossi capace di immortalarli su carta, questi tipi costituirebbero. Non so chi li mandi né cosa vogliano da me. Non credo vogliano esistere, nel qual caso si sarebbero rivolti alla persona sbagliata, visto che io già non sono capace di raccontare la mia di storia, figuriamoci le loro. E poi mi fanno paura. Ma, più di tutti tra i mostri della mia mente, a farmi paura è Marika. Marika è una donna bellissima con i capelli lunghi e rossi che le arrivano fin quasi al fondoschiena, sensuale e senza pudore. Si muove nel mio mondo molto meglio di quando sappia fare io. È sicura e seducente e si porta a letto tutti gli uomini che vuole, preferendo quelli che mi stanno più simpatici.

Con quelli, lo so, ci prova più gusto a trattarli con maggior crudeltà. E poi si lascia guardare mentre fa l'amore, sa che la guardo, anzi, fa di tutto affinché io la guardi, sembra godere di più. Io, più dei draghi e dei vampiri, vorrei che ad andarsene fosse lei, invece nulla. Tra i tanti, nella mia testa c'è anche un serial killer. Ogni tanto fa fuori qualche personaggio di troppo, in modo, dice, da ristabilire un mio equilibrio mentale. Secondo lui dovrei anche ringraziarlo. Gli ho chiesto di far sparire Marika, ma niente, non ha voluto. Al massimo, ne uccide gli amanti.

Un paio li ha uccisi prendendoli a coltellate proprio mentre facevano l'amore con lei. Marika non ha battuto ciglio. Ha scansato i corpi inermi dal suo e si è ripulita del sangue che le era scivolato addosso. Poi si è rivestita, ha baciato il serial killer, mi ha dato un'occhiata, ha accennato un sorriso, ed è uscita di scena. Questa donna mi ossessiona, vorrei sparisse dalla mia mente eppure sento al tempo stesso di subirne il fascino, nonostante mi faccia paura.


Ma a terrorizzarmi più di tutto è la possibilità che Marika sia io.

Una volta credevo di no, non era possibile, al massimo potevo essere stato uno dei suoi mille amanti, uno che magari aveva tentato di suicidarsi per lei, e che fosse la causa per cui mi trovo qui ora. Il problema è che non ricordo niente di me, neanche se sono un uomo o una donna e non ho la minima possibilità di accertarmene guardandomi allo specchio. Marika domina i miei pensieri, e questo mi lasciava supporre fossero quelli di un uomo. Di un uomo che quella donna ha fatto impazzire e spinto al suicidio.

Ma poi ho sentito il dottore chiedere all'infermiera « come sta la paziente? », quindi dovrei essere donna. Finora non ho mai sentito nessuno pronunciare il mio nome, perciò non so se Marika sia la proiezione di quello che davvero sono o è piuttosto l'alter ego di come vorrei essere o essere stata. Sembra che nessuno sappia nulla di me, nessuno mi viene mai a trovare, forse è troppo doloroso, per parenti e amici, ammesso che io ne abbia, vedermi in questo stato e probabilmente si saranno anche convinti che non serva a nulla. Sono in coma, e anche se le macchine rivelano un'attività cerebrale più o meno intensa, il mio corpo non reagisce agli stimoli. Da quel che ho so, anche i miei occhi sono chiusi.

E' come se fossi in un lungo sogno da cui non riesco a svegliarmi. Non ho la cognizione del tempo, ma se non ho capito male è da due anni che sono in queste condizioni. Una volta ho sentito confabulare qualcuno, non saprei bene chi, se non fosse il caso di spegnere i macchinari. Tanto, non viene a trovarmi mai nessuno e per l'ospedale sto diventando un costo eccessivo. Sono finita in un'area piuttosto solitaria dell'ospedale e, per non correre il rischio che qualche malintenzionato possa intrufolarsi furtivamente dentro, le finestre sono quasi sempre chiuse e le tapparelle abbassate. Sembra ci siano già stati problemi del genere in passato, così ora nessuno vuole prendersi la responsabilità di lasciarle aperte. Le aprono giusto quel tanto che basta per le visite o per far cambiare l'aria. Trascorro il mio tempo così, vagando tra le mie fantasie e i miei incubi nel buio più assoluto. Mi chiedo se abbia davvero il diritto di lamentarmene, o se questa non sia una condizione comune a tutti gli esseri umani, cercare tracce tra le proprie follie per capire chi siamo.

Ignoro cosa mi sia successo, so a malapena di essere finita in coma due anni fa e dopo un periodo non so quanto lungo di incoscienza totale la mia mente riesce quantomeno a pensare, pensa cose strane ma pensa, ed è popolata soprattutto dalle mie paure. Il mio corpo invece ha smesso di rispondere al mio controllo così per gli altri è impossibile capire cosa succeda dentro di me.

Se fossi capace, mi creerei un mondo su misura, ambientato nell'epoca vittoriana e con personaggi alla Jane Austen, popolato da affascinanti donzelle, facoltosi gentiluomini e simpatiche canaglie. Ma ogni volta che ci provo arrivano Marika e gli altri a rovinare tutto. Così ho rinunciato. Mi tengo i miei demoni così come sono perché in un mondo in cui tutti mi hanno lasciato sola, la mia immaginazione, nonostante i suoi limiti, è l'unica cosa a ricordarmi che sono ancora viva. Una volta pensavo che quei mostri mi affollassero la testa perché per loro era l'unica possibilità di avere una qualche forma di esistenza. Ormai sono del parere contrario, vengono solo a ricordarmi che sono io ad esistere ancora. Almeno finché non staccheranno la spina.

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