giovedì 19 gennaio 2012

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Cose che capitano

Notturno, Torre Eiffel
È notte e una leggera brezza soffia sui sogni parigini; su quelli di mia moglie, che dorme con un braccio sotto il cuscino lasciando l'altro penzolare alla sua destra; ha le gambe leggermente divaricate , distesa sul letto matrimoniale di uno squallido hotel, in diagonale, occupando più spazio di quanto il suo esile corpo esiga, mentre la tenue luce della stanza riflette i suoi lunghi capelli castani; Parigi veglia anche su mia figlia, una bambina di tre anni infagottata in quella che, almeno nelle intenzioni, sarebbe una culla in ciliegio finemente lavorata, piazzata a portata di dondolio dal braccio della mamma. Io sono affacciato al balcone a godermi l'ultima sigaretta della giornata, esile brivido di piacere di una giornata pesante, un animo inquieto e una vita in fumo. Ho proposto io a mia moglie di venire qui, con la scusa che ero troppo nervoso per via del lavoro e avevo bisogno di staccare. Sul fatto che fossi nervoso e lo fossi per il lavoro non ho mentito. Ma in realtà tenevo a questa gita per proporre alla mia famiglia un viaggio indimenticabile. Prima di abbandonarla per sempre.

Solo che avendo la testa altrove le mie sono rimaste pure intenzioni. Parigi è una città troppo colorata per chi sente la propria vita volgere al buio; troppo ricca di suggestioni, arte, lusso, vita, di troppe cose che non potrò più permettermi. È una città complessa in cui ogni vicolo, piazza o quartiere nasconde qualche segreto, inadatta ad un animo già fin troppo impegnato a nascondere i propri per sforzarsi di capire quelli altrui. Così ho evitato di farmene coinvolgere: ammirarla sarebbe stato come vedere sfilare via tutto ciò che sto per perdere. Mi mancano ancora pochi tiri per finire la mia sigaretta quando qualcuno apre il balcone della stanza di fianco. È una donna, si avvicina e mi chiede se ho da accendere. Annuisco ed estraggo l'accendino dalla vestaglia.

«Si sta bene qui, eh?» mi chiede, dopo aver fatto un tiro. Annuisco. «La prima volta a Parigi?» continua a domandarmi. «Anche la mia, sa? Dovevo andarci con mio marito l'anno scorso, ma il bastardo ha preferito venirci con una sgualdrinella di 19 anni. Un anno di tribunali per fottergli quanti più soldi possibile. Purtroppo non sono riuscito a ridurlo sul lastrico, ma ne ho ricavato comunque un bel gruzzolo. Così mi sono detta “Al diavolo! Ci vado da sola” ed eccomi qua. E lei?»

Io mia moglie ce l'ho portata a Parigi prima di abbandonarla, penso. Mi chiedo se finirà con l'odiarmi con la stessa veemenza con cui questa donna odia il suo ex. Probabilmente. Meno probabile riesca a ricavarci qualcosa dal nostro divorzio...dal momento che sul lastrico ci sono già. «Allora?» mi rincalza la tipa. Mi distolgo un attimo dai miei pensieri e guardo questa donna negli occhi. Ci trovo uno sguardo vivace, curioso, divertito, di quelli che fingono noncuranza solo per cogliere i particolari a tua insaputa. Ha l'aria di essere una di quelle donne che, quando si fidano, danno tutte sé stesse. E che potrebbero toglierti tutto non appena non si fidino più. Oscillo tra la voglia di raccontarle tutto o togliermela di torno. Propenderei per la seconda ipotesi, se solo sapessi come fare. «Sono qui con la mia famiglia. Mia moglie e mia figlia, di tre anni» Mentre rispondo mi volgo a guardarli, la bambina serena in quella specie di culla che le hanno affibbiato e mia moglie che dorme beata su un lato, con il sedere scoperto e il riscaldamento al massimo. La donna affacciata al balcone segue il mio sguardo e dà un'occhiata all'interno della nostra stanza. «Bella donna»

Mi infastidisce che abbia violato così la nostra privacy e ancor di più che faccia commenti su mia moglie ma non mi riesce di farglielo notare. Del resto posso prendermela solo con me stesso, che ho lasciato spalancata la vetrata , lasciando la vista della mia famiglia e della nostra stanza alla mercé di dirimpettai e curiosi. Rispondo con un “grazie”, come se avessi gradito il complimento. Quand'è che sono diventato così? Da quando pensieri, parole e azioni non corrispondono più? Sento la mia anima divisa in tre: una pensa, l'altra parla, e un'ultima agisce. Mi chiedo a quale delle tre appartenga la mia vera natura e se non mi sia trascinato lo stesso problema anche al lavoro. Chissà, forse è proprio questa l'origine di tutti i miei guai.

«Le va un caffè nella hall?» chiedo all'improvviso alla donna, stupendo più me stesso che lei, la quale, guardandomi con occhi più maliziosi che stupiti, mi domanda «perché no? Mi dia un attimo per prepararmi». «La aspetto all'ingresso» rispondo mentre rientro nella stanza. Vorrei dare un ultimo bacio a mia moglie ma temo si svegli e rinuncio. Piuttosto metto il biglietto che ho scritto nel pomeriggio sotto il cuscino ed esco. Ti lascio perché mi sono innamorato di un'altra. L'albergo è pagato per tutta la settimana. Buona permanenza a Parigi. Secco, crudele, impietoso, stupido. C'è n'è abbastanza per odiarmi, ed è ciò che voglio. Mi auguro anche che non faccia in fretta e furia i bagagli per tentare di raggiungermi e si godi davvero il resto del viaggio. E non solo perché sarei incapace di affrontarla. Ma ho prosciugato le ultime risorse del conto corrente per saldare il conto d'albergo e mi spiacerebbe andasse sprecato. Mia figlia invece non riesco neanche a guardarla, temo che se lo facessi perderei il coraggio di portare fino in fondo il mio piano. Presumo mia moglie leggerà la lettera al mattino, magari dopo essersi fatta la doccia quando, capito che non sarei tornato, cercherà segni della mia assenza. In realtà non c'è nessun altra, i miei unici problemi riguardano l'azienda per cui lavoro. Ne ero stato socio fondatore e ne avevo curato brand, logo, clientela, strategie. Insomma, tutto. Ma una crisi spaventosa ci ha costretto a vendere. In breve: sono stato declassato, da dirigente a poco più che impiegato ed anche lo stipendio ne ha risentito. Dicono che sono stato fortunato, considerando tutti quelli che la nuova dirigenza ha licenziato ma immagino sia solo questioni di giorni. Con me i nuovi titolari sembravano gentili, almeno all'inizio, ma era tutta una finta per estorcermi il know-how aziendale. Ottenuto il quale sono finito nel dimenticatoio. Niente benefit, nessun potere decisionale, stipendio al limite del ridicolo e compiti da mero esecutore, lasciandomi chiaramente intendere che, se non mi sta bene e voglio farmi da parte, di certo loro non si opporranno. Ho tentato di non farlo notare in famiglia, cercando di mantenere lo stesso tenore di vita, finendo con lo spendere tutti i nostri risparmi. Gli ultimi se ne sono andati per questa gita. Volevo almeno congedarmi con un ultimo viaggio tra alberghi a cinque stelle e cene in ristoranti di lusso, mentre non sono riuscito che a procurarmi questa squallida stanza in un hotel di periferia. Per non parlare di tutte le volte che siamo finiti al MacDonald. Fortuna che almeno la bimba ne fosse entusiasta, essendo libera di sfrenarsi con gli altri suoi coetanei.

«Andiamo?» la donna dell'appartamento affianco mi distoglie nuovamente dai miei pensieri. È rimasta, come me, in vestaglia ma ha in mano una borsetta, si è truccata e, non so se fossi io a non averlo notato prima, o non ci fosse proprio, ora dalla scollatura si intravede un reggiseno di pizzo nero. Prendiamo l'ascensore e mentre scendiamo al bar della hall c'è tra noi un imbarazzato silenzio. Temo – temo o ci spero? - che lei blocchi l'ascensore e mi salti addosso. Lei non fa niente di tutto questo. Si limita a guardarsi allo specchio e fare un po' di smorfie giocando col lucidalabbra. Ho nella saccoccia della vestaglia qualche spicciolo per i caffè e le chiavi dell'auto, nel bagagliaio della quale è nascosta la mia valigia, a disposizione per un cambio d'abito prima della fuga definitiva. Perché faccio tutto questo? Perché l'alternativa è dire la verità a mia moglie e la cosa mi fa più paura. Le ho sempre e solo mostrato l'uomo che volevo essere. Ora che mi ritrovo costretto a rivelarmi per quello che sono, non ho la forza di accettare un suo rifiuto. Preferisco fare io la prima mossa. Altrimenti, ci sarebbero due alternative: o resterebbe con me, sopportando l'uomo che l'ha trascinata sul lastrico oppure mi lascerebbe lei, incapace di amare un uomo che non può più darle lo stesso tenore di vita. Quest'ultima è l'ipotesi che meno riuscirei a sopportare: preferisco essere odiato per un motivo fondato che scoprire di aver sposato una moglie incapace di amare il suo uomo finito in miseria. Non metterò alla prova il suo affetto: dopo la batosta aziendale non reggerei un'altra sconfitta. Mi chiedo se non stia facendo altro che uno colossale sciocchezza. Ma la vita di tutti è piena di episodi in cui si è preferito fare sciocchezze piuttosto che affrontare la verità. Non credo qualcuno possa biasimarmi per questo, a parte mia moglie. E, forse, mia figlia.

Nella hall, preso il caffè, restiamo a chiacchierare a lungo. Come molte donne, la signora è piuttosto loquace ed io, sapendo che il congedo da lei significherà il congedo da tutta la mia vita, lascio che la conversazione si allunghi. Racconta di sé con una certa disinvoltura e con la stessa si prende anche una confidenza che non vorrei darle ma a cui non mi oppongo. Rispondo, con una certa ritrosia, alle domande che mi rivolge, comprese quelle che riguardano la mia famiglia e mia moglie in particolare. “L'ama?” ed eccomi caduto in trappola, messo alle strette da una sconosciuta con una domanda tanto semplice quanto insidiosa. Mi chiedo perché le donne lo chiedano sempre e quale sarebbe, in questo caso, la risposta più gradita. Dire sì, rivelandomi un uomo capace d'amare ma legato a un'altra. No, diventando l'uomo di cui non potersi fidare, uno di quelli che basano la propria vita sull'inganno, sentimentalmente libero perché incapace di andare oltre. Rispondo sì e mi chiederà perché sono qui. Rispondo no e si chiederà perché lo sia lei. È un gioco in cui si perde sempre, in cui l'apostrofo cade, e quel “l'ama?” si trasforma in una lama pronta ad essere usata contro di te in qualsiasi momento. “Sì, direi di sì” rispondo pensando alla reazione di questa donna se, domani, dovesse conoscere mia moglie dopo la mia scomparsa e leggere il biglietto. Temo quali consigli potrebbe darle. All'improvviso la luce della stanza, già tenue, si fa più soffusa, dal momento che il sonnacchioso barista ha spento due delle quattro lampade che illuminavano la hall, come a farci presente che si è ormai fatta una certa ora e consigliarci di andare a letto. Non sa il barista, non può sapere, che attraversare quella porta per me vuol dire attraversare un destino. Ho macigni nell'anima, o forse solo sensi di colpa, che mi impediscono di fare quei pochi passi così velocemente e a cuor leggero. Così continuiamo imperterriti nei nostri discorsi, senza che nessuno dei due abbia davvero fretta di andarsene.

Fin quando non mi chiede per quale ditta lavori.

«Noooooo!» grida ridendo. «Proprio quella di cui sono diventata la maggior azionista! Mio marito me ne ha ceduto tutte le quote, pur di togliermi di torno! Quindi lei è un mio dipendente, lo sa?». Improvvisamente la vita torna a sorridere. Parlo con lei del marito, del lavoro, di progetti e di tante altre cose. Tanto da fare l'alba. Siamo entrambi allegri neanche avessimo passato insieme una notte di sbronze e non preso solo un caffè. Quando rientro in camera mia moglie è sveglia. Ha letto il biglietto. È furiosa, grida e mi lancia qualsiasi cosa sia alla sua portata. La bimba piange. Fuori ha preso a diluviare. Eppure la vita può essere splendida anche così, nonostante la propria donna, arrabbiata con te, ti abbia appena fatto un occhio nero centrandoti con una piastra per capelli e stia facendo qualsiasi cosa pur di fare altrettanto con l'altro.

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